Il rigore della pittura – Una conversazione con Vincenzo Scolamiero di Antony Molino
Raccordi #12
Pubblicato nel mese di ottobre 2019 su ARACNE rivista d’arte
IL RIGORE DELLA PITTURA
Una conversazione con Vincenzo Scolamiero
di Anthony Molino
Vincenzo Scolamiero nasce nel 1956 a Sant’Andrea di Conza, in provincia di Avellino, al confine della Irpinia con la Lucania. Figlio di un alto ufficiale dell’Arma dei Carabinieri, da piccolo cambia continuamente di residenza, e Roma diviene presto la sua città di adozione dove vive continuativamente dagli anni della fanciullezza. Non dimenticherà però il fascino della pietra locale campana e della casa materna affrescata nelle pareti e sui soffitti con scene campestri ispirate dalla scuola di Posillipo. Importante per la sua formazione è l’alone di mistero che circonda la figura del nonno materno Francesco D’Angola, apprezzatissimo scultore, scomparso poco prima della sua nascita. Molte delle soluzioni pittoriche seguite da Scolamiero nel corso della carriera prendono spunto dalla memoria dello sguardo perso lungo le pareti della casa d’origine, cercando il percorso dei pampini e degli arbusti che tralucevano tra i graticci trompe l’oeil delle pitture parietali, poi distrutte dal terremoto in Irpinia del 1980.
Scolamiero si diploma in Pittura nel 1986, presso l’accademia di Belle Arti di Roma, allora diretta da Toti Scialoja. Come racconta in questa conversazione, la sua attività artistica inizia con la mostra personale presentata dallo storico dell’arte Antonio Alessandro Mercadante presso la nota Galleria Ferro di Cavallo a Roma, nel 1987. Numerose da allora sono le mostre personali e le rassegne espositive di carattere nazionale e internazionale alle quali partecipa. Nel 1990 viene selezionato dalla più importante rassegna d’arte contemporanea di Roma di quegli anni, intitolata Giovani Artisti a Roma III; nel 1991, sempre a Roma, viene presentata da Maurizio Calvesi una sua mostra personale presso la Galleria de’ Serpenti. Del 1993 invece è l’invito della Soprintendente alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, Augusta Monferini, alla mostra Giappone/Italia – Giovani generazioni. Il confronto tra dieci artisti italiani e dieci giapponesi ha luogo a Roma presso la stessa GNAM e l’Istituto Giapponese di Cultura. Dello stesso l’anno l’invito del Drawing Center di New York, per partecipare alla rassegna The return of the cadavre exquis. Parteciperà in seguito alla XII Quadriennale Romana – ultime generazioni, e alla IX Biennale d’Arte Sacra di San Gabriele in provincia di Teramo. Nel 1997 inizia un lungo rapporto di stima e collaborazione con Marco Goldin, che lo invita in importanti rassegne museali, dalla Galleria dei Carraresi
a Palazzo Sarcinelli di Conegliano Veneto alla importante mostra “La ragazza con l’orecchino di perla” e la Golden Age Olandese, tenutasi a Palazzo Fava di Bologna nel 2014. Partecipa più volte al Premio Michetti di Francavilla (CH), dove vince il primo premio nell’estate del 2014. Sue mostre personali sono state ospitate in rilevanti spazi pubblici, quali la Galleria Nazionale d’Arte Contemporanea della Repubblica di San Marino e la Banca Nazionale del Lavoro, con la quale nel 2000 inizia una importante collaborazione e che collezionerà suoi lavori per esporli in numerose filiali. Da qualche anno l’opera di Scolamiero gode di crescenti attenzioni all’estero. La Kips Gallery di New York lo presenta nel 2014, 2015 e 2017 al Busan Art Fair di Busan in Corea. Nel 2015 è invitato a New York per una residenza d’artista dalle gallerie Kips e ARNPY bcs, che si conclude con la mostra There are reasons a cura di Nicola Davide Angerame. Nel 2018 espone nella contea di Fenghuang in Cina, nell’ambito della mostra Italian Contemporary Art of Cross-Cultural Vision,
a cura di Zhang Yidan e Wang Shengwen. Successivamente suoi lavori vengono esposti nella rassegna Beyond the horizon – Contemporary Art from Italy al Beijing World Art Museum. Inizia così un intenso rapporto di collaborazione con
l’Oriente, rapporto che in Cina verrà ulteriormente approfondito nei prossimi anni sulla base di accordi già presi per una serie di mostre. (Nella conversazione vedrete che spuntano, senza che fossi al corrente di questa ricca esperienza di Scolamiero in Asia, osservazioni su aspetti della sua pittura che richiamano tradizioni pittoriche e poetiche di quelle terre lontane.)
Sarebbe superfluo soffermarsi oltre sulle singole mostre o collaborazioni di alto livello di questo artista schivo e riservato, al solo fine di aggiornarne il curriculum per i lettori. (Nella ricca e intensa conversazione che segue, Scolamiero parla peraltro della preziosa e recente collaborazione con la compositrice Silvia Colasanti, nonché della sua ultima mostra, intitolata Della declinante ombra, a cura di Gabriele Simongini, tenutasi al Museo Carlo Bilotti a Roma nella primavera di quest’anno.) Mi preme, invece, spendere due parole sul titolo da me scelto per la conversazione, titolo subito accolto con piacere da Scolamiero.
Come si potrà evidenziare dalla cura attenta con cui risponde alle mie domande, e dal sentimento di profonda partecipazione che trapela dalle sue risposte, la riservatezza dell’uomo ha il suo correlato in quella che definirei una “presenza etica” che informa tutta la sua pittura. L’umanesimo, se vogliamo, di Scolamiero – quella sua cultura, e quella sua pittura, che si nutrono di poeti quali Rilke e Zeichen, della mitologia greca come della musica classica – anziché essere “fuori tempo” è, in un certo senso, senza tempo, e per questo attualissimo, e oltremodo necessario.
Il suo esempio è necessario proprio perché insiste sulla dimensione del rigore non come rigido e sterile esercizio stilistico ma come cifra dell’uomo, laddove la prassi dell’arte non si estrinseca dalle leggi che governano, idealmente, la civitas. Non per niente Scolamiero usa spesso la parola rituale quando parla della sua arte, e sappiamo tutti quale funzione hanno i riti nella vita di una comunità, anche in quelle scollate e fragili come le nostre. Per Scolamiero, credo, il rigore della sua arte è espressione funzionale e vitale della presenza dell’artista e del suo contributo alla vita della civitas, come dimostra d’altronde la sua fertile collaborazione con la Colasanti e le loro mirabili co-produzioni per il Festival di Spoleto; o come avvertiamo quando parla del suo ruolo presso l’Accademia delle Belle Arti di Roma, dove insegna
a nuove generazioni di artisti. Il rigore della pittura, quindi, come testimonianza e evocazione dell’antica corrispondenza tra etica e estetica: corrispondenza che Scolamiero nella sua arte incarna, attraverso una prassi che guarda ben oltre, e non si compiace, di una etimologia condivisa ma oggigiorno troppo spesso svuotata di senso.
Anthony Molino: Visitando il tuo studio, Vincenzo, si rimane colpiti dalla disseminazione e fitta presenza di oggetti, oserei dire reperti, naturali: di ramoscelli, nidi, foglie che costellano e definiscono in parte l’ambiente in cui operi. Più di tutto mi hanno impressionato i tuoi pennelli, da te costruiti usando legnetti e altri materiali. Tralasciando per ora ogni considerazione tecnica, è come se il momento della pittura, il passaggio del colore dalla mano al supporto, dovesse essere mediato in qualche modo dalla natura; come se dovessi riappropriarti di un suo elemento, affinché funga da propaggine che possa sprigionare il gesto pittorico…
Vincenzo Scolamiero: Lo studio è lo spazio dell’anima, il luogo privilegiato dove il pensiero si fonde con lo stato d’animo, con le emozioni, con le riflessioni che quotidianamente portiamo con noi. Non potrei dipingere, lavorare, in uno spazio asettico, minimale, tecnico. Non potrei farlo, non perché non si possa in generale ma perché il mio modo di essere, il mio modo di sentire il mondo che mi circonda non lo permetterebbe. Ho la necessità di circondarmi di piccoli oggetti, di forme, di angoli nello studio come nature morte o piuttosto installazioni, di piani colmi delle cose più disparate e minute, perché possa sentire intorno a me un contatto, un collegamento, con la semplicità delle cose, con la poesia. È un mondo, che mi costruisco intorno, fatto di oggetti minimi, come hai giustamente osservato, cose senza un particolare fascino se analizzati singolarmente. Rametti, frammenti di intonaco, pietre, nidi, ciuffi d’erba, zolle di terra, antiche posate sparse qua e là, due portacandele di quelli che si trovano nelle chiese di campagna e poi ancora mattoni, pezzetti di ferro arrugginito … Un mondo fatto di cose apparentemente senza valore, senza senso, ma accomunate tutte dall’essere residuo di qualcosa che era stato, in un altro stadio della loro esistenza, in un’altra dimensione. È questa possibilità di ricollocarle, di reificarle in un contesto diverso, quello dello studio della pittura, per dare loro nuova esistenza, che mi affascina. La possibilità che dall’osservazione del minimo reale si possa tendere verso un massimo di incanto emozionale è forse uno dei segreti del fare poesia. E provo continuamente, da sempre, di fare poesia attraverso l’osservazione della meraviglia nascosta nelle cose più semplici. A volte un ramo con poche foglie secche appoggiato su una soglia, un giunco piegato e arrotolato a modo di corona di spine, appoggiato di sbieco su un foglio di carta, un semplice racimolo di uva ormai passita, hanno una tale forza di comunicazione poetica che mi sorprende ed emoziona… Ecco tutto quello che hai visto e notato nel mio studio è parte fondante di me, della mia poetica, della mia pittura. Sono oggetti catalizzatori dunque, non semplici modelli in posa ma motivi di senso. Non mi interessa riprodurli, non sono un pittore di nature morte, non sono un pittore della natura, come a volte qualcuno ha scritto, non cerco la leggerezza della foglia che scende. Cerco, ma forse ci saranno altre domande a cui rispondere con più precisione, un linguaggio carico di senso poetico che possa comunicare emozioni, stati d’animo, incanto. Uno stadio del respiro, In ogni semplice fare, Soltanto ombre, Della declinante ombra, sono titoli di cicli di pitture che porto avanti ed evocano una necessità di comunicazione alta, che parli della dimensione umana e del percorso, del transito, dei passaggi che completiamo con la nostra esistenza.
A.M. Trapela dalla tua risposta una marcata sensibilità lirica, laddove insisti di voler “fare poesia” con la tua pittura. Ricorderai che durante la mia visita al tuo studio, ebbi l’impressione che la tua arte ambisse ad una forma di haiku della pittura. Mi parve evidente che il lirismo essenziale di tanta arte orientale, giapponese in particolare, con i suoi richiami incessanti alla natura, trovasse spazio nelle tue creazioni. Eppure, con mia grande sorpresa, trovai che fosti sorpreso da questo mio commento. Hai per caso avuto modo di rifletterci? E ti chiedo: cosa intendi per fare poesia con la pittura? Parleremo più avanti del tuo misurarti con la musica nei lavori più recenti, ma dalle tue riflessioni uno potrebbe intuire che la poesia sia forma più alta di arte a cui la pittura possa o debba ambire, o con la quale comunque contaminarsi per arricchirsi…
V.S. La poesia al pari della pittura è il luogo dell’evocato, del non detto, della discesa nel profondo dove la comunicazione dell’umano si fa metafora, suggerimento. Il luogo dell’ossimoro, del ritmo, del velo di maya che nasconde per svelare. Nella poesia le parole sono come i grumi di colore della pittura e le sillabe, storte come rami secchi, creano percorsi molteplici, percorsi infiniti di andata e ritorno nello spazio e nel tempo…Le mie velature di colore si muovono come nuvole senza fine, vaste, profonde; muovono masse dense, fluide, per creare tensione di spessore. Il pittore, il poeta, è alla ricerca di una sintonia con il mondo, di una sincronia modulata su spazi tesi ostinatamente verso la costruzione di una sintassi, di una legge di comunicazione che possa incidere come una vertigine: un senso di allarme, un segno di forza e di perdita, nell’attimo dell’incontro con l’umano. Oggi i miei riferimenti sono Rainer Maria Rilke, Hölderlin ma anche Kavafis, Celan, Solinas, Ungaretti, Montale, e i contemporanei Anedda, De Angelis, Sicari… Sono costanti punti di riferimento, compagni di strada, in cui trovo echi, sonorità fondamentali. In loro la parola si fa densa, ricca di profondità commoventi, complessa, composta.
Penso a l’Alcesti di Rilke, dove Admeto urla “gridò come gridò sua madre al nascimento”; sempre di Rilke, al suo Orfeo Euridice Hermes, opera che è stata spunto per il titolo del ciclo di quadri Della declinante ombra nell’ultima mia mostra personale al Museo Carlo Bilotti di Roma – dove la declinante ombra è Euridice, e il suo flebile “chi?” incide in modo chirurgico e feroce la carne del lettore nel momento in cui il Dio la rimanda di nuovo verso l’Ade, a causa di Orfeo che ha voltato il capo, contravvenendo all’ordine di non guardarsi indietro… E ancora, a Il canto di Iperione sul Destino di Hölderlin, con la caduta dei mortali di rupe in rupe “per anni dura il cadere nell’incerto” … L’arte, la grande arte parla sempre delle stesse cose, della vita, dell’amore, della morte… Questo assunto di Mario de Micheli, letto agli inizi del mio percorso d’artista, mi ha segnato indelebilmente, ed è in questi contenuti antropologicamente fondanti che ho sempre cercato di specchiarmi, evitando la narrazione aneddotica, la ricerca fine a sè stessa dei linguaggi, proiettandomi così verso percorsi esistenziali che potessero essere forma di liturgia, specchio dell’esistenza.
Ecco che il fare pittura non è diverso dal fare poesia, e nel componimento haiku la metafora e il paradosso risuonano come nello scoccare di un istante. È vero, sono rimasto sorpreso dalla tua affermazione sulle consonanze tra le opere che osservavi nello studio e il componimento haiku. Non avevo mai riflettuto sulla possibilità di una sintonia con questo magnetico componimento breve, con la sua capacità di esattezza e profondità. La vicinanza alla cultura orientale in alcune suggestioni del mio fare pittura è per me cosa nota anche se mai veramente cercata o approfondita.
La semplicità del mondo e delle piccole cose, vissute con commovente partecipazione, il cogliere nel minimo il massimo della densità di senso, sono concetti legati ormai più ad una consapevolezza collettiva, ad una specie di anima del mondo, piuttosto che riferibili semplicisticamente ad una mera appartenenza del mondo orientale. Ma accostare la poesia haiku alla mia pittura è cosa assolutamente nuova, forse giusta, e sarà sicuramente importante spunto di approfondimento. E probabilmente hai ragione, è più nell’haiku e nell’esattezza dell’istante che si dà l’immagine della pittura, con i suoi tempi legati alla lettura dell’immediato e dell’insieme dello sguardo che coglie l’attimo e che solo successivamente si apre ad altre profondità per entrare nello spazio e fermare il tempo.
A.M. In tempi recenti hai collaborato con la compositrice Silvia Colasanti, producendo assieme un singolarissimo libro d’artista – in soli sette esemplari, se ricordo bene! – intitolato Ogni cosa ad ogni cosa ha detto addio, che riprende lo stesso titolo di un libro del poeta Valentino Zeichen, scomparso da qualche anno. La collaborazione con la Colasanti ha trovato espressione anche a recenti Festival di Spoleto. Mentre ti invito a raccontare la storia di questa collaborazione, vorrei che spiegassi anche la genesi e l’articolazione di un progetto che porta Te pittore a trasporre sulla tela elementi della musica. Nello specifico: la musica è per sua natura fugace, effimera, si presenta alle nostre orecchie mentre si disperde nel tempo, in un flusso di note che si susseguono soltanto per dissolversi, generando al contempo una dimensione dove memoria e attesa si intrecciano per lasciarci sospesi e, come dire, “attraversati”. Come già suggerisci la pittura, invece, ferma, fissa, segna; finisce per sfidare in un certo senso il Tempo. Cosa puoi dire di questo esperimento, del pittore – e della pittura – che letteralmente si misura con la musica?
V.S. Il mio rapporto con la musica ha origini lontane e ragioni profonde, origini lontane perché sin dai primissimi passi ho sentito il bisogno di legarmi artisticamente a questo mondo così complesso, completo, e oltremodo affascinante. Origini profonde nel cercare con la pittura di ricostruire quel campo emozionale e sensibile che la musica in massima parte restituisce, in modo diretto, esatto, inequivocabile, senza fraintendimenti possibili, percorsi emozionali ed emozionanti fatti anche di studio solitario, di tecnica, di esercizio.
La musica come la poesia e la pittura ha bisogno di costruire prassi come liturgie per esprimersi in modo completo e significativo. Il rapporto tra la pittura e la musica è complesso, come giustamente suggerisci: le due arti si muovono su dinamiche diverse, opposte, ma spesso gli estremi si incontrano, si ricongiungono per creare nuove soluzioni e così accade per queste due arti. La musica vive uno spazio e un tempo che sono diametralmente opposti a quelli della pittura: il tempo della musica è ampio, non si coglie nell’immediato, si sviluppa nella successione di attimi colti sul nascere e rivolti ai sensi. L’idea che ci facciamo dell’insieme della composizione musicale è immaginaria e data dalla memoria, non possiamo possederla nella realtà. Lo spazio è dato dagli accordi, dagli intervalli, dalle linee melodiche.
Nella pittura l’insieme del quadro, per quanto grande che sia, lo cogliamo all’istante nella sua interezza ed è difficile separarsi dalla visione d’insieme. La visione globale della pittura è reale, solo successivamente possiamo entrare nello spazio della pittura e sezionarlo per coglierne gli aspetti più minimi, più intimi, tecnici, per formarci un’idea del tempo dell’esecuzione e delle sue soluzioni formali. Non solo sensi diversi ma anche modi diversi di porsi rispetto alla loro fruizione, due mondi però con tanti punti di contatto e che stimolano continuamente incontri profondi e fecondi come la storia di questi linguaggi ci ha tramandato.
L’incontro con Silvia Colasanti, compositrice tra le più note a livello internazionale, è avvenuto nel 2016. Con Silvia si è creata subito un’intesa profonda, sui modi di intendere i nostri percorsi artistici, basati su di un’idea che coniughi l’arte contemporanea con le radici profonde della tradizione. La Compositrice, nel 2017, mi ha chiesto di occuparmi della realizzazione della copertina e di immagini che potessero accompagnare una sua fondamentale opera commissionatale dal 60° Festival di Spoleto. Si trattava di un Requiem, intitolato Stringeranno nei pugni una cometa. Un canto laico in onore delle vittime del terremoto del centro Italia. Il Requiem prevedeva nell’importante organico dell’orchestra una dolcissima e malinconica parte per bandoneon e nella prima assoluta, a Piazza Duomo di Spoleto, la parte sarebbe stata eseguita dal noto jazzista Richard Galliano. Pensai di sviluppare delle pitture direttamente sulle pagine della partitura dell’opera, chiedendo a Silvia le sue pagine con solo l’indicazione dell’organico dell’orchestra senza la scrittura delle note. Successivamente dopo aver dipinto alcune zone delle pagine ho chiesto all’autrice di completare l’immagine con la scrittura delle note del Requiem, sovrapponendole alla pittura. Così nella stessa pagina si sono alternati il testo autografo dell’autrice e le mie pitture. Insomma un lavoro a quattro mani, dove note e testo sono parti integrate dell’immagine. Un lavoro basato sull’ascolto, e sull’ osservazione, di ciascuno del lavoro dell’altro. La pittura di queste pagine è caratterizzata da grandi onde bianche di pittura, velature sensibili ad ogni minimo gesto del polso, che si sviluppano su un nero di china assoluto, spazio profondo, abissale. Le velature si propagano con un ritmo a volte armonico e a volte bruscamente interrotto, e nell’idea originaria seguivano sia l’idea dello sviluppo musicale del Requiem, in particolare del mantice del bandoneon, e sia, suggerendolo, l’andamento grafico del sismografo, registrando il muoversi della terra in ondate telluriche cariche di terrore e di malinconia. Per la copertina/frontespizio l’immagine scelta, tra le tante che avevo elaborato, è stata una corona di pampini in forma di corona di spine dove l’immagine sacra si trasforma in un’idea laica, e la corona diventa una cometa o ghirlanda di fiori, legandosi al titolo dell’opera. Con Silvia Colasanti c’è stata poi una ulteriore intensa collaborazione: mi riferisco alla realizzazione di un libro-opera a partire da un suo quartetto d’archi composto per Casa Ricordi nel 2017. Intitolato Ogni cosa ad ogni cosa ha detto addio, il titolo del quartetto deriva, come giustamente segnali, dalla raccolta omonima di poesie di Valentino Zeichen, pubblicato da Fazi nel 2000. Il libro/opera è stato eseguito in pezzi unici su carta pregiata e stampata a mano con caratteri Bodoni dall’editore Piero Varroni per la Eos Edizioni di Roma. È stato realizzato in soli sette esemplari, ognuno diverso dall’altro nella resa della pittura. Anche questo è stato un lavoro a quattro mani sulle pitture da me elaborate con inchiostri e colori acrilici (pagina unica per ognuna delle sette copie del libro/opera di cm 50×140, piegata a Leporello e chiusa nella copertina). Ho successivamente disegnato il pentagramma per il quartetto e sul pentagramma, sovrapposto alla pittura, Silvia ha scritto le note, scegliendo particolari della partitura in base alla pittura. Anche in questa seconda collaborazione, dunque, l’esperienza si è risolta in un processo sinestetico che ha visto coinvolti entrambi gli autori. Concludo per dire: la musica più delle altre arti ha la capacità, oltre che di penetrare immediatamente e colpire l’essenza più intima dell’ascoltatore, di costruire forme nello spazio più puro, iconografie mentali, spazi prolungati, senza soluzione di continuità, percepibili come immagini fantasmatiche, visioni abissali con architetture, traiettorie, circonvoluzioni, scarti e dolcissime evocazioni. Questo è il percorso e il legame con la musica che più mi appartiene: cercare attraverso il suo ascolto le emozioni e suggestioni date dalla sua potenza plastica e visionaria, ad occhi chiusi, inseguendola nei suoi spazi infiniti, ampi, dilatati.
A.M. A proposito di musica, seppur di tutt’altro genere: Larry Mullen, batterista degli U2, nell’ambito di un documentario sulla carriera della band, spiega a larghe linee la genesi di una loro canzone. Racconta di come il quartetto inizi sempre alla ricerca del suono, che in un secondo momento apre alle emozioni, e all’idea della canzone che si va formando. Solo all’ultimo stadio della composizione si arriva alle parole, al testo della canzone, che deve comunque “rispettare” l’integrità raggiunta nella sintesi di suono ed emozione. (Personalmente, trovo curiosa – e molto bella – l’equiparazione che Mullen fa tra emozione ed idea. L’idea,
a quanto pare, non si articola in parole.) Sentendo parlare questo musicista mi sono chiesto se queste riflessioni potessero trovare riscontro nella tua esperienza di pittore,
o perlomeno servire da invito a parlare della genesi di un tuo quadro…
V.S. Ti ringrazio, Anthony, per queste belle riflessioni. Mi trovo molto in sintonia con le parole di Larry Mullen e potrei dire che il mio procedimento di lavoro si avvicina molto a quanto da lui descritto. Per me l’incipit di un ciclo, di una serie di lavori è sempre legato ad un particolare sentire, ad un momento di sensibilità recettiva, ad un suono interiore, alla lettura di un testo che evoca un certo tipo di emozioni, all’ascolto di una musica con la quale entrare in contatto. A volte è come una sorta di eco, di vibrazione profonda che percepisco intorno. Per questo anche nel mio studio mi circondo di oggetti che in qualche modo interagiscono con i miei sentimenti. Il loro starmi intorno è un continuo suggestivo stimolo creativo. Dalla prima sensazione, percezione subliminale, mi muovo cercando un’eco profonda nelle emozioni; in genere mi rivolgo alla poesia e leggo per ore o giorni prima di trovare un senso, una direzione. Direzione che non sarà mai lineare ma un percorso fatto di diramazioni, ritorni, balzi in avanti.
Dopo l’input comincio con la scelta del materiale, la dimensione delle tele, il colore, spesso monocromo, e lo testo, faccio prove, mai mi è capitato di usare un colore puro, sono sempre miscele, che annoto maniacalmente nelle loro percentuali. In genere le pitture degli ultimi anni sono quasi tutte basate su tonalità monocrome, perché del monocromo mi interessa la sua possibilità di dare il massimo risalto, nella sua trasparenza e intensità, allo spazio e alle trame della pittura, alla sua scansione temporale. Alla sua fascinazione. Preparo più tele o tavole e le lavoro contemporaneamente. Inizio la stesura della pittura, e le prime pennellate, come un esergo, evocano e suggeriscono il percorso successivo. Anche per me, dunque, la parte più evidente del lavoro, la soluzione della pittura, la superficie finale, sarà l’ultimo stadio del processo creativo. Sin dall’inizio l’obiettivo, la meta, sta nella fedeltà della resa a quell’humus iniziale ben presente solo come emozione, come sentimento, come suono. Non lascio una pittura fino a quando non la sento finita, nitida
e tagliente nella sua esattezza. La mia pittura è fatta di slanci trattenuti, sospensioni e velature. Sono necessari stadi diversi del respiro e del tempo per portarla avanti. La strada da percorrere, per ottenere i risultati che cerco, dovrà essere necessariamente rigida, calibrata con attenzione, senza abbandoni ad una gestualità estemporanea, ma legata ad una prassi, una liturgia, come ripeto spesso, che mi guidi passo dopo passo ad una elaborazione complessa ma che della complessità perda la pesantezza a favore di una leggerezza densa, carica, poetica. Una leggerezza, direi, musicale.
A.M. Queste tue riflessioni, Vincenzo, e l’enfasi sull’esercizio sistematico, sulla prassi, o sulla liturgia inerente al tuo operare, mi portano a chiederti della dimensione didattica del tuo essere pittore. Sei – da quanti anni? – docente di pittura nel dipartimento di Arti Visive dell’Accademia delle Belle Arti di Roma. Ho avuto modo di intuire e apprezzare la passione con la quale ti dedichi all’insegnamento e ai tuoi allievi, ma gradirei sapere qualcosa del tuo approccio alla didattica. Come ti poni rispetto ai tuoi allievi, e come ti vivono loro? Come nutre la tua arte il rapporto con gli allievi? E infine: cosa intravvedi in loro e nella loro pittura che dia ragioni – se posso usare una parola grossa – di speranza per il futuro dell’arte in Italia? (Mi permetto l’uso della parola “speranza” perché non posso pensare che sia valore estraneo a chiunque lavori con
i giovani e abbia responsabilità educative, in qualsiasi campo o corso di studi…)
V.S. Insegno in Accademia da tanti anni, dal ‘92. Insegno nella stessa Accademia dove mi sono formato e laureato in pittura. Questo ha generato in me una sottile confusione di ruoli che non sono riuscito ancora a risolvere. Confusione tra l’essere discente e docente. Molto probabilmente non ci sarebbe stata, però, differenza alcuna anche se avessi frequentato un Accademia diversa o avessi insegnato altrove…La crescita di un artista è realmente una formazione permanente, così il sentirsi “in formazione” insieme ai miei studenti è stata una naturale disposizione. Con i miei studenti c’è uno scambio reciproco di stimoli, uno scambio senza interruzione. Il mio percorso di insegnante, però, è iniziato come docente di anatomia artistica. In questa materia non si insegna il disegno del modello vivente ma a disegnare la struttura del corpo, per meglio comprenderne il modellato. L’osteologia, la miologia, per intenderci, la forma del corpo “sottopelle”. Si parla difatti di analisi strutturale. Analisi strutturale che ho utilizzato come pretesto per parlare di pittura, della forma della pittura e delle sue esigenze di pratica quotidiana, di prassi, e dunque per spingere gli studenti verso la ripetizione dell’esperienza: un percorso di memorizzazione delle parti in funzione della costruzione del tutto. Solo in questi ultimi anni, la Direzione dell’Accademia mi ha rinnovato la gratificante richiesta di passare all’insegnamento della pittura, affidandomene la cattedra.
Richiesta che mi era già stata rivolta in passato ma che avevo declinato per cercare di mantenere con gli studenti un rapporto trasversale, non diretto. Per parlare di pittura attraverso un’altra disciplina, senza il rischio di dover coinvolgere nell’insegnamento la mia prassi di pittore. Mi sono ultimamente deciso ad affrontare l’insegnamento di questa materia quando, in questi ultimi anni, mi è apparso più chiaro come la formazione di un giovane artista potesse essere incentivata non ponendo la conoscenza delle tecniche al primo posto della programmazione. Questo senza negare, ovviamente, le tecniche, ma inserendole in un contesto molto più esteso, favorevole alla formazione di un bagaglio culturale ad ampio raggio…Ciò deriva dalla convinzione che l’insegnamento della pittura non può essere svincolato dalla consapevolezza della complessità che questa disciplina vive nel mondo di oggi. Non può più essere mero insegnamento di tecniche applicative, di un mestiere del fare. Il giovane pittore, o meglio il giovane artista, deve essere oggi un intellettuale capace di cogliere punti di vista, contenuti. stimoli. Cogliere spunti, pensieri, riflessioni dal mondo che lo circonda, dagli altri linguaggi artistici, e ricondurre al suo specifico modo gli input, i segnali, che da tutto questo gli arrivano. Per questo credo che l’insegnamento della pittura non sia oggi impartire un ricettario di tecniche. Non può voler dire insegnare un modo, magari il proprio modo, il proprio
linguaggio, come tanti pittori fanno, o hanno fatto, creando piccoli epigoni riconoscibili. Al contrario, vuol dire, secondo me, spingere il giovane artista verso la costruzione di un proprio percorso artistico, di un autonomo consapevole linguaggio che sia frutto di una ampia rete di conoscenze, di approfondimenti e incursioni nelle altre discipline. Il giovane deve essere consapevole della storia dalla quale proveniamo, delle proprie origini, e allo stesso tempo sentirsi inserito nel proprio mondo, nella contemporaneità. Nulla può essere tentato altrimenti. Per questo ai miei studenti consiglio letture formative non necessariamente specifiche del mondo della pittura. Letture come le Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke, un testo fondativo che parla del come e del perché della scelta dell’arte; come le Lezioni americane di Calvino; oppure approfondimenti sulla mitologia con le Metamorfosi di Ovidio, o testi come Futuro del ‘classico’ di Salvatore Settis. I miei studenti sono sollecitati a parlare delle loro esperienze davanti ai loro colleghi, a fare dei veri e propri statement pubblici, collettivi. Un esercizio questo altamente formativo che li mette in grado di chiarirsi i percorsi linguistici intrapresi e di saperli comunicare. Certo è che affrontiamo anche questioni inerenti alle tecniche, a partire dalla conoscenza profonda dei materiali, della loro preparazione e del loro uso specifico. Ho diversi giovani assistenti bravissimi che mi coadiuvano e a cui do compiti specifici legati ai linguaggi tecnici, che comunque sovrintendo. Ecco, i miei studenti escono dal corso con una competenza a largo spettro e soprattutto capaci di parlare del loro lavoro con linguaggio appropriato. Bravissimi, ho studenti veramente capaci e sono molto orgoglioso di loro. I giovani studenti italiani, a mio avviso hanno una marcia in più dei colleghi stranieri che conosco e frequentano la nostra Accademia. C’è grande consapevolezza e ostinazione nella grande maggioranza di loro, e tra loro ci sono in numero insospettabile promesse interessantissime. Studentesse e studenti in grado già negli ultimi anni di corso (“3+2”) di formulare linguaggi autonomi e validi. Il confronto con i giovani che vengono dall’estero, in favore dei nostri, non è azzardato né superficiale: abbiamo in Accademia anche un gran numero di studenti stranieri che provengono da percorsi come Erasmus e Turandot. Essi vengono da strutture molto più moderne e accoglienti, sostenuti dai loro paesi d’origine e forse proprio questo fa la differenza con i nostri giovani, costretti come sono a darsi motivazioni forti, con strade sempre in salita senza alcun aiuto dallo Stato – che anzi ne mortifica le ambizioni sia dal punto di vista normativo che logistico, ma che aumenta in modo esponenziale la loro determinazione e sete di conoscenza e di auto-costruzione.
A.M. Dopo queste considerazioni sulla formazione di artisti odierni e futuri, inviterei altre sulla tua. Hai accennato alla tua esperienza presso l’Accademia dove oggi insegni, chi furono lì i tuoi maestri? E chi sono i tuoi autori di riferimento, lontani o vicini nel tempo, che più ti hanno influenzato? Personalmente percepisco nella tua pittura assonanze, per esempio, con l’opera di Mario Raciti. Poi, se mi permetti un azzardo, ritrovo anche elementi che fanno pensare al tardo, lirico, Hartung…
V.S. Non è una domanda facile a cui rispondere. Se penso al mio primo importante incontro con il mondo della pittura, penso ad un pittore di origini veneziane, amico di Emilio Vedova: Enrico De Tomi. L’ho conosciuto alla fine degli anni settanta, ero già deciso a percorrere la strada della pittura, me lo presentò un suo collezionista d’arte e mecenate che poi diventò anche il mio primo assiduo collezionista. De Tomi era un colorista straordinario e uomo di grande fascino, lavorava con una importante galleria del centro e ho passato lungo tempo nella sua soffitta romana bohémien, infastidendolo con domande asfissianti, sempre più convinto che la scelta fosse quella giusta e che avrei fatto il pittore ad ogni costo. È stato un incontro decisivo, il momento reale della scelta di campo: De Tomi è stato un riferimento importante, modello umano, non linguistico. La vera formazione è avvenuta successivamente, con l’iscrizione e la frequenza alla scuola di pittura dell’Accademia di Belle Arti di Roma, dove ho incontrato un humus molto fertile con docenti straordinari e compagni di strada. Giovani artisti, con i quali condivido ed ho condiviso momenti intensi e formativi e con i quali sono tuttora in dialogo serrato.
In Accademia ho incontrato insegnanti importanti, straordinari, ma soprattutto di discipline collaterali, non di pittura; indimenticabile l’insegnante di incisione Gianpaolo Berto, con i suoi discorsi ipnotici e affabulatori; la scenotecnica con la straordinaria chiarezza e esattezza di Giorgio Scalco; l’affascinante Francine Virduzzo che apriva i nostri orizzonti culturali con riferimenti filosofici e estetici; il discusso e travolgente Nato Frascà; e non per ultimo la Direzione di Toti Scialoja, che già dal secondo anno di corso mi selezionò per la fiera Expo-Arte di Bari, insieme a altri due studenti, per rappresentare il padiglione dell’Accademia di Belle Arti di Roma. Fu un invito importante e gratificante. Come autori maestri di riferimento sicuramente Mario Sironi e Francis Bacon al primo posto, insieme ad Alberto Giacometti e Giorgio Morandi, poi Soutine, Bonnard, Cezanne e i più vicini Afro e l’informale di Vasco Bendini; con Vasco Bendini, conosciuto personalmente, avevamo lo studio attiguo. Ricordo anche un pittore di origine austriaca ma naturalizzato britannico, incontrato alla Biennale di Venezia del 1986, il quale esponeva per il padiglione della Gran Bretagna: Frank Auerbach. Fu per me un incontro molto importante. Ricordo il suo uso della pennellata densa, costruttiva, plastica, in presa diretta; il suo era un modo originale di proseguire la lezione di Francis Bacon. Nell’osservare la sua pittura, infatti, mi sembrava di scorgere una giusta sintesi tra la materia drammatica di Bacon e Soutine legata alla resa plastica di Sironi, e all’ossessiva ricerca dell’umano di Giacometti. Ne restai lungamente affascinato. La sua pittura mi influenzò molto e fu, con gli altri riferimenti, alla base della mia prima mostra personale: curata da Antonio Alessandro Mercadante, la mostra si tenne in una mitica galleria romana dell’epoca, la libreria “Ferro di Cavallo”, spazio frequentato negli anni da Pasolini e Argan, da Moravia e Manganelli, dal Gruppo 63 come da Alberto Burri. Vi esposero Capogrossi, Rotella, Ceccobelli, Dessì, per citare solo alcuni nomi di colleghi importanti… Ricordo che eravamo nel 1987, quando vi esposi per la prima volta. Per quanto riguarda il tuo riferimento a Mario Raciti, devo ringraziarti perché, pur conoscendolo e apprezzandolo non avevo mai riflettuto sulla possibilità di una mia vicinanza alla sua opera, che invece ora mi appare evidente. È sorprendente come le motivazioni del profondo, che muovono i suoi temi pittorici, siano vicine alle mie; e se penso in particolare ad alcuni suoi cicli pittorici interamente dedicati a sondare i percorsi del mito, come I fiori del profondo – ciclo riferito al mito di Persefone e Demetra – ed alla mia ultima mostra interamente dedicata al mito di Orfeo ed Euridice, intitolata Della declinante ombra, la consonanza di vedute e spunti di riflessione si fa veramente intensa. Consonanza, quindi, con Mario Raciti di poetica, ma devo dire anche di soluzioni linguistiche, per quanto riguarda un mio passato meno recente…Per quanto riguarda invece la tua citazione di Hans Hartung, credo che anch’essa possa essere azzeccata; o meglio, non avendo mai osservato con attenzione il suo lavoro, l’accostamento avverrà anche in questo caso a posteriori. Ma immedesimandomi in un osservatore esterno, non posso non concordare che il suo uso del linguaggio pittorico – di grande fisicità, fatto di impressioni sul colore, di graffi, di escoriazioni sempre tesi verso un lirismo astratto – abbia più di una coincidenza con la mia pittura e il mio uso della materia.
A.M. Vorrei concludere questo intenso e ricco excursus attorno alla tua opera citando una riflessione dello storico dell’arte americano Kirk Varnedoe, direttore del MOMA dal 1988 al 2001, che nel suo magnifico libro Pictures of Nothing (libro che non mi risulta essere stato tradotto in italiano, che raggruppa una serie di sei sue lezioni tenute nel 2003 presso la National Gallery of Art di Washington) scrive quanto segue: “La linea ininterrotta, per esempio, tra l’opera intitolata Excavation (“Scavo”) di de Kooning del 1950 e il suo Senza Titolo IV del 1984 smentisce qualunque nozione che la storia si possa costruire impacchettandola in maniera netta e ordinata, o che l’astrazione sia una sequenza di innovazioni passate come il testimone in una staffetta da un artista all’altro. Al contrario, essa rafforza l’idea che l’astrazione sia una ricerca che possa coprire l’intero arco di una vita, e motivare un artista fino alla vecchiaia… È una prassi pragmatica quella che difende i confini tra astrazione e rappresentazione, e non una qualche purezza teorica di strane linee che possono essere disegnate vigorosamente… Non potremmo capire la carriera di de Kooning – le Donne, le sue prime figurazioni, la spinta ricorrente verso un’arte corporea nella sua scultura degli anni ’70 – senza capire che il confine tra astrazione e rappresentazione non è qualcosa di sacro bensì qualcosa di labile, permutabile e trasgressivo.” Mentre leggevo queste parole di Varnedoe non potevo non pensare al tuo lavoro, dove la tensione fra figurazione e astrazione – come in Raciti, del resto – sembra essere felicemente e costantemente sostenuta senza mirare a compiacenti o seducenti risoluzioni. Alla luce delle riflessioni di Varnedoe puoi commentare questa tensione, che mi sembra essere tratto distintivo e perdurante di tutto il tuo lavoro, fin dagli esordi?
V.S. Caro Anthony ti risponderò iniziando con un’altra citazione, di Francis Bacon, che come un esergo, contiene ed evoca tutto il testo successivo: “L’immagine che cerco sta come un funambolo sulla corda tesa che separa la cultura figurativa da quella astratta.” In questo assunto è la chiave di lettura di tutto il mio lavoro. Ho sempre cercato di costruire un’immagine ibrida che potesse unire il sentimento forte, propulsivo e drammatico delle pulsioni interiori e informi, con la definizione esatta dell’immagine oggettiva e con la sensibilità, a volte di estenuante delicatezza, di un modus operandi quasi calligrafico, nitido. La mia pittura parte sempre da immagini chiari definite, da modelli che dispongo nello spazio, come nature morte, e sono gli oggetti che nello studio, come un trovarobato, mi circondano. Nel lavoro c’è sempre la pretesa di un’osservazione figurativa e oggettiva dello spazio, delle cose, dello spirito che permea la ragione e il sentimento del fare per costruire immagini contraddittorie, fluide, metamorfiche. Immagini ibride, immagini riconducibili sempre, sempre, ad una definizione formale e mai astratta, contro ogni evidenza. Ricordo bene di come rimasi perplesso quando un caro amico artista, molto stimato, ancora pochi anni fa, in un colloquio nel mio studio, definì la mia pittura astratta. Non mi ero mai reso conto, fino a quel momento, di come il mio lavoro potesse prestarsi ad un simile equivoco. Ci fu una lunga discussione con l’amico nella quale io portai le mie ragioni sul perché mi considerassi un pittore pienamente figurativo, e di come la mia pittura fosse, spesso, rivolta addirittura alla ricerca di effetti trompe l’oeil: effetti, a volte, ottenuti realmente sulla superficie. Non convinsi pienamente il mio amico, ma quella discussione mi permise di riflettere con grande attenzione sul bilico che il mio lavoro percorreva tra astrazione e figurazione. Sorprendente poi la citazione con il tuo riferimento a De Kooning. Non so come ma ho dimenticato di indicare questo gigante del ‘900 in una mia precedente risposta. De Kooning infatti è stato per me un altro punto importantissimo di riferimento, con la sua ossessiva, mai placata ricerca di struttura, ricerca di punti fermi, di esattezza dell’immagine nel caos tra astrazione e figurazione. Non me ne vorrai se, in ultimo, cito una frase sulla mia pittura dello storico dell’arte Gabriele Simongini, che nel testo di presentazione della mia mostra personale conclusasi pochi mesi fa, al Museo Carlo Bilotti di Roma, così scrive: Una natura ‘altra’ è quella cercata da Scolamiero, immersa in una dimensione quasi amniotica che spesso diventa umbratile e visionaria. Le sue sono ‘icone ibride’ con forme in transito verso il mistero, fluide, in divenire, capaci di annullare qualsiasi distinzione fra astrattismo e figurazione. (G. Simongini, catalogo mostra Della declinante ombra, Ed. De Luca, Roma 2019). Credo che queste parole di Simongini, meglio di altre, possano agganciarsi alle preziose riflessioni di Varnedoe per rispondere alla tua fondamentale domanda e chiudere, spero degnamente, questa nostra conversazione.
Anthony Molino è psicoanalista di formazione anglo-americana e pluri-premiato traduttore di letteratura italiana in inglese, nonché occasionale curatore di mostre. Da quasi 25 anni vive e lavora in Italia. Ha tradotto in inglese i poeti Valerio Magrelli, Lucio Mariani, Mariangela Gualtieri, Luigia Sorrentino, Paolo Febbraro e Antonio Porta, nonché commedie di Manlio Santanelli e Eduardo De Filippo. Nel 2018 la sua traduzione de Il diario di Kaspar Hauser di Febbraro (Brescia: Edizioni l’Obliquo, 2003) è stato premiato quale migliore traduzione di un libro di poesia italiana in inglese per il biennio 2016-‘17 dalla Academy of American Poets, la più prestigiosa istituzione letteraria americana. Da sempre attento alle intersezioni tra la psicoanalisi e altre discipline (ha pubblicato importanti ricerche su psicoanalisi e buddismo, nonché su psicoanalisi e antropologia), da qualche anno Molino si interessa all’arte. Ideatore della piéce teatrale Caro Theo, tratta dalle lettere di Vincent Van Gogh al fratello Theo, collabora attivamente con la rivista americana Journal of Italian Translation, per la quale cura la rubrica dedicata alla presentazione, in ogni numero, di un artista italiano.
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