Francesca Bottari: personale Del silenzio e della trasparenza, Palazzo Pubblico, Magazzini del Sale, Accademia Musicale Chigiana, Siena – Catalogo De Luca Editori d’Arte, Roma
L’ORO DEL VERO
Vincenzo Scolamiero espone i suoi grandi lavori luminescenti e dorati a Siena, laddove l’oro è di casa. Sembra quasi una sfida, un cimento. È invece un incontro amorevole e desiderato, l’ennesima prova di come la ricerca dell’artista romano subisca il soprassalto creativo quando le suggestioni provenienti da altri ambiti – quelli che più ama: la poesia, la musica ma anche la pratica, figlia primogenita dell’alto artigianato – gli muovono l’estro, lo spingono verso strade misteriose e incantate che è ansioso di solcare.
L’oro, quindi. Eppure, diversamente dal canto delle sirene liriche che da sempre strega Scolamiero, l’oro è apparso nei suoi lavori emergendo dalle pieghe più reali della vita: nelle botteghe di restauro, dove i maestri italiani raccolgono la tradizione secolare traducendola in una prassi consolidata ma mai uguale a se stessa. Così tra le latte di colle, colori e pigmenti che affollano l’atelier romano di Vincenzo, sono entrate le rilucenti polveri lamellari che, declinate nei toni dell’oro rosato, arancio, rossastro, fino a piegare verso un grigio argenteo, vengono impiegate con perizia nei laboratori di conservazione, restauro e doratura.
Di quelle polveri impalpabili e luminose come la sabbia del deserto, che al tatto sembrano evaporare tra le dita, l’artista ha impreziosito l’applicazione, legandole con la gomma arabica e altri collanti della tradizione, fino a dar loro la consistenza della pasta cromatica che docile si piega alle pennellate ampie, ondulate e vibranti che egli modula. Scolamiero ha così trovato nuovi piani, spazi e volumi che, sommati alle superfici e alle profondità già sue, hanno creato increspature e ondulazioni ramate o bronzee che reagiscono alla luce esterna e ne subiscono accensioni e cangianze.
La ‘reazione’ che s’innesca – quasi fosse un esperimento chimico – sorprende e muta sotto ai nostri occhi: le viscere della terra in cui Vincenzo si è sempre immerso, ammaliato dalle tracce che la natura pone sul suo cammino e che lui raccoglie e contempla, sembrano svelare aggregati minerari, cristalli magmatici, quasi giacimenti di pepite e diamanti, come nelle favole antiche. Natura e poesia, scosse telluriche e pulviscolo d’oro, anfratti rocciosi e lastre specchianti. Il lavoro di Scolamiero, del resto, ha sempre fiancheggiato e poi assorbito la dimensione evolutiva della stessa materia, lasciandosi andare ad essa mentre gli mutava tra le mani, in una successione percettiva ed esecutiva quasi liturgica: partendo dalla malia dei doni naturali (che siano un acanto, un nido, un ramo che si attorciglia intorno alle sue bacche, una pietra o una zolla di terra…) e di quelli lirici o musicali, per giungere all’esecuzione figurativa si compie un lento processo nel tempo e nello spazio in cui la sua pittura lo guida e a essa egli si affida.
E adesso arriva l’oro – materia sì, ma anche incanto sacrale – che tutto invade, dalle superfici luminose alle più oscure cavità, che accende le ombre e risplende nei colori, che riflette il sole nel suo percorso irradiante. Come non pensare, qui al pianterreno del Palazzo Pubblico, all’illustre scuola senese che dal Medioevo al Rinascimento ha formato generazioni di artisti a trattare la foglia dorata sui fondi lignei stendendola dolcemente, a punzonarla e poi a lucidarla per le aureole, gli orli dei manti, le cornici e le ali degli angeli? La foglia d’oro trasformava il reale in sacro come in un processo alchemico: suddivisa nelle botteghe in porzioni impalpabili e poi distesa, a volte battuta a volte soffiata, sui fondi delle tavole preparate, levigate e impregnate, si traduceva infine in epifania del divino, concretizzarsi dell’immagine di fede. Ogni maestro, da Duccio a Simone Martini ai fratelli Di Bartolo e Lorenzetti, poi al Sassetta e a Matteo di Giovanni, seguiva e reinterpretava i dettami di Cennino Cennini.
Ora, un artista dei nostri tempi, da sempre in funambolico equilibrio tra la concretezza della natura e la magia della suggestione poetica, è accolto con le sue grandi tavole, carte e tele nel regno dell’oro. Il dialogo è inevitabile, ineludibile. Perché anche lui, come i grandi senesi del due e trecento, è alla ricerca di quella pietra filosofale che trasformi la natura in poesia, la realtà in visione, la pratica artigianale in manifestazione del sacro, il mestiere in astrazione. Così, mentre sfonda lo spazio cercando immani profondità, laviche reazioni terrestri, anfratti segreti in cui circoli un vento impetuoso, l’artista affida al pulviscolo d’oro, reso fisico dal suo legante, l’accartocciarsi di piani riflettenti sul piano limite, quasi una barriera metafisica che ci apra la visione, ma anche ci costringa al rispetto e alla prudenza che la Natura esige.
Del resto, come spesso gli abbiamo sentito ripetere, Scolamiero si fida della sua pittura: se lui s’incanta davanti alle piccole cose naturali di cui si circonda, o si lascia andare alle suggestioni poetiche e musicali, poi è lei che sceglie la strada e decide dove condurlo. Vincenzo la segue, la asseconda. Eppure sa dove lo sta portando, lo sa sempre.
Chi da anni ama il lavoro di Scolamiero ha fatto i conti con i suoi colori, le tante fasi cromatiche che ne hanno accompagnato la ricerca spaziale e temporale: accanto alle terre, ai bianchi e ai cinerini, ci siamo poi persi nei suoi turchesi e rossi, aranci e rosa, in tutte le tonalità possibili. È arrivato l’oro, negli ultimi anni di lavoro, e la sua amatissima amica – sua maestà la Pittura – lo ha accompagnato a Siena. Con coraggio, temerarietà e temperanza.
Francesca Bottari