Fedora Franzè, 2006
Catalogo mostra ”La piuma e la pietra”
San Marino, Galleria Nazionale d’Arte Contemporanea, Logge dei Balestrieri
Luglio/settembre, 2006
Il respiro delle pietre e delle melagrane
Questa è la storia di un percorso compiuto a piccoli passi, discreti e inesorabili, verso un obbiettivo puntuale, raggiunto di continuo e nuovamente inarrivabile.
Una sedia, dipinta nei tardi anni Ottanta, occupa quasi tutto lo spazio dal taglio verticale.
Il fondo ocra è impastato di nero, un’alta linea obliqua costruisce da sola l’incontro tra parete e pavimento e impone un punto di vista rialzato.
La sedia è un vassoio dalla struttura esile: lo schienale si confonde con lo sfondo, le gambe si allungano a sfiorare i bordi della tela e a sondare la diversa risposta alla luce del legno; la seduta si ribalta fino alla frontalità e mostra i suoi ospiti, tre teste d’aglio e una tazzina bruna annegati nell’azzurro denso di una luce che si fa accogliente come un cuscino.
Le cose scavano attorno a sé uno spazio individuale, si fanno largo a ribadire la propria presenza fisica. Strano caso di natura morta, in cui minuterie vegetali e utensili gridano l’esistenza e mostrano fame d’aria. (foto 1)
L’interrogazione della realtà sembra presentarsi in primo luogo nei termini del rapporto tra oggetto e spazio. La percezione è il punto di partenza; la visione, la resa, l’interpretazione, sono problemi successivi e, ovviamente, conseguenti. L’eleganza delle forme di Scolamiero non è cercata, è trovata sulla strada, colta al volo e tenuta cara, lavorata al cesello, ma non preordinata, non necessaria a priori.
Il pittore sembra ripartire da una questione ontologica fondamentale, dalle basi della conoscenza. Si chiede come dimostrare in pittura, la sua, (e forse tout court) l’esistenza della realtà intorno secondo la propria sensibilità percettiva, fatta com’è di consistenze indecifrate, di contenitori che non sono mai vuoti, di presenze.
Consapevole di poterne trattare solo in termini relativi, cerca le differenze che portano alle piccole risposte, un paio di elementi alla volta sotto la lente. Nel farlo mette necessariamente in gioco gli strumenti del mestiere, che sono al contempo strumenti di conoscenza, nonché una realtà materiale in cui la realtà che si indaga prende forma: il disegno e il colore, fatti di linee e campiture, di attenta delineazione e di pennellate, di acqua e inchiostri, di molti ritorni per arrivare, ora sì, alla visione. E poi il supporto: tela, tavola, foglio di carta. Negli occhi la vita d’intorno, fatta di forme minime, di cui studiare la natura nel senso più vasto e profondo, l’unico che porti con sé una certificazione intellettuale accettabile, l’essenza, il senso per sé.
Nella pittura di Scolamiero – quanto di più lontano dalla concezione pop – non si registrano dei dati sottratti al vero o di pura invenzione, né si commentano; non si dà per scontato, alla lettera, neanche un fuscello. Piuttosto, con disciplina certosina e altrettanto coraggio (ci sono quesiti con cui si convive in ogni momento e ci sono vite in cui neanche per un momento se ne mette in discussione l’oggetto per vedere cos’è che fa tanta paura) l’artista procede al suo personale inventario, in cui ad ogni fuscello corrisponde un’indagine, ad ogni indagine un’appropriazione, una certezza minuscola, un piccolo possesso stabile.
E’il metodo tenace con cui Scolamiero si apposta e cattura la realtà nella sua rete di segni, interiorizzandola, che funziona con sorprendente precisione. Di norma l’operazione riesce, davanti ad una sua opera non si viene colti da dubbi. Il mondo ri-creato dal pittore esiste; sarà per la solida struttura disegnativa, per l’equilibrio spesso inappuntabile della composizione, per l’esercizio abile del mestiere insomma, ma non solo. E’ perché ha capito che la verifica più efficace è il riscontro interiore; quando l’osservazione giunge a produrre un’eco e inizia a doppiarsi in immagine, l’opera prende forma. Per questo il problema dell’espressione, del gesto, arriva solo dopo, anche se può durare a lungo, a raffinare l’effetto finale, e sembra non acquistare mai piena centralità. Per questo si tratta di una pittura che, se resta legata alla tradizione dell’informale come repertorio di modalità immaginative, riesce ad evitare che essa diventi un codice, un vincolo.
Ed ecco che oggetti di una natura decontestualizzata diventano gli interlocutori più affidabili.
Dalle sedie occupate, in cui sono presenti termini ricorrenti della generale ‘geometria’ del pittore (incroci che fondano spazi, presenza architettonica, dialogo tra segno graffito e pennellata di spessore, misurato bilanciamento compositivo), alle pietre e ai rami, la ricerca si svolge paziente e graduale, sempre focalizzata sull’osservazione affilata di lunga durata.
Il cubismo denso delle figure della metà degli anni Ottanta, carico di umori caldi da Scuola Romana e legato ad una matericità informale che lascia tracce durature, è oggi abbastanza lontano, ma denuncia in modo chiaro, a differenza dei lavori recenti, un’ascendenza ribadita a tutt’oggi dallo stesso Scolamiero: Francis Bacon. Quella corruzione dell’immagine deformata trova qui immediato riscatto nella procedura di scavo personale, che si traduce nell’accurata ridefinizione dell’oggetto, salvo, una volta che il pittore l’ha scelto; riscattato, alla fine dell’operazione pittorica, dall’equilibrio perfetto col resto del suo mondo immaginario. (foto 2) Come avviene il passaggio di stato dalla natura alla pittura di Scolamiero? Analisi, interiorizzazione, sintesi formale.
Già dai primi anni Novanta emergono nuovi indirizzi di ricerca, e si evolvono i precedenti: si va chiarendo in termini diversi il tema del doppio: il fenomeno dell’interazione tra frammento di reale e ambiente è analizzato attraverso una netta ripartizione della tela in spazi separati, cromaticamente differenziati in zone d’ombra più magmatiche e zone chiare abitate da realtà residuali. E’come se il singolo elemento fosse materialmente allontanato dal suo proprio contesto per una verifica, a volte visualizzandone i legami con l’area d’origine in forma di ombre, di linee di proiezione, oppure invertendo i rapporti cromatici tra le zone per istituire un confronto simile a quello tra negativo e positivo fotografico. Doppio geometrico o architettonico, l’impressione è di avere di fronte un fenomeno vitale in corso, l’ecografia di una nuova vita, o di una vita eterna rivitalizzata. (foto 3)
Resterà, negli anni a venire, la tendenza a suddividere lo spazio materiale della tela o della tavola in più settori, ma è una compartizione che cambia di segno, divenendo fatto pittorico, successivo all’elaborazione compiuta, non più lirica pratica di laboratorio. Cambia la scelta del momento impresso nell’opera, in entrambi i casi nulla è raccontato, ciò che si dà allo sguardo è sempre la fase finale, la sintesi. Lo stadio intermedio non può essere documentato, se non per suggestione, e ci arriviamo; è lo stesso pittore a condurci al limite del visibile, sulla soglia della sua sensibilità trasformatrice.
Ai primi anni Novanta risale la comparsa dei primi giunchi, fili snelli che solo per una porzione di lunghezza sono catturati nel quadro, che proseguono una vita autonoma in uno spazio inafferrabile, termini medi tra diverse qualità spaziali, di cui almeno un paio interne all’opera, scale fragili che immergono e consentono la fuga. (foto 4)
Nel medesimo periodo ricorre il tema delle fascine, che tra il 1993 e il 1996 vengono “estratte” ed osservate, per poi essere calate nuovamente nel magma della realtà, intrise sempre più di colore, sempre più d’invenzione, percorrendo a ritroso il processo evolutivo che conduce l’oggetto ad acquistare un’identità propria differenziandosi da ciò che lo circonda. (foto 5)
Procedendo nel corso del tempo, con qualche libertà nelle accelerazioni improvvise, arriviamo alla fine degli anni Novanta, con opere in cui appare un altro ambito d’approfondimento del problema di partenza. Ricompaiono le figure, restano sottili forme vegetali, a volte isolate, resta la coesistenza di spazi delimitati da rette e campiti differentemente. Ora l’accostamento si è fatto cordiale, al posto di un’opposizione dialettica il lento scivolare di un termine sull’altro. (foto 6)
Nuovo è il senso del movimento che per Scolamiero è passaggio, transizione, momento sospeso tra due scoperte: ne sono testimoni le molte figure femminili in moto, apparizioni fantasmatiche che incedono verso soglie tracciate da fili di luce, o donne danzanti. D’altronde cosa più della danza costituisce il trionfo del transito, la sublimazione del corpo? (foto 7) E a sua volta la figura umana si pone come termine medio tra la fascina ancora in terra e gli spazi invisibili al di là delle pareti. (foto 8)
Alcuni busti anticipano la fase successiva, quando col niente dell’acqua l’artista lascia espandere il segno: la nuca e le spalle slavate, ma integre nel senso della massa, pietre consumate, trattate perché il corpo non sia il corpo ma la sua idea. (foto 9)
All’aprirsi del nuovo millennio, inchiostro, terre e pigmenti tracciano traiettorie liquide che si intrecciano, risolvendo calligraficamente in superficie e con autonoma energia la relazione della materia con uno spazio che si è fatto astrale. (foto 10)
E’ un universo compatto questo di Scolamiero, che realizza spesso opere in cicli, per lo più trittici, svolgendo un tema nelle sue varie declinazioni, ma anche portando fuori dall’orbita della singola opera quella ripartizione che di norma vi è inserita, o ribadendola (dentro e fuori). Allora ecco i quadri nei quadri, le geometrie sovrapposte; l’opera si dipana come una lingua in evoluzione che muta la sintassi ma non è rivoluzionata nelle regole fondamentali e mantiene parte del vocabolario. (foto 11)
Come già diversi anni fa una sedia, così oggi una panca qualsiasi, usata come piano d’appoggio per i fragili materiali di natura, offre nell’incrocio delle gambe col pavimento l’immagine di un altro mistero, la nascita di uno spazio nuovo: due linee che si toccano sono leggibili bidimensionalmente sul piano, e riproposte sulla tela come parte di una tessitura geometrica, e tridimensionalmente, sancendo la divisione tra parti dell’opera trattate con colori diversi ad indicare diverse distanze, vuoti di varia entità.
Lo spazio spesso ombroso, a volte il buio, dei dipinti di Scolamiero, è il corrispettivo respirato, gonfiato, dello spazio che si dà sul piano, proprio dell’arte che media tra figurazione e astrattismo.
Clement Greenberg, nel 1954, metteva a fuoco in modo efficace una caratteristica dell’arte moderna, il recedere della componente illusionistica, la progressiva riduzione dello spazio “scenico” fino alla sua coincidenza con il sipario, quindi con il piano materiale dell’opera, tela o tavola che sia. Di qui una differenza tra figurativo ed astratto non solo in termini di rappresentazione, ma di concezione spaziale, per cui le tre dimensioni di geometrie o relazioni tra oggetti pertengono ad un campo. L’idea della superficie pittorica come muro (De Staël, 1952), su cui si aggiunge come intonaco colore su colore in strati costruiti che dal piano procedono in avanti, o come piano di galleggiamento (a volte sfiorando l’informale), o come luogo autonomo di organizzazione del pensiero col gesto e col segno, fa riferimento all’altro campo.
Scolamiero affronta, con mitezza determinata, lo studio di un frammento di realtà alla volta, mettendolo in salvo dal mondo intorno e in ultima istanza dalla propria consunzione, e istituendo un contatto con una sostanza terza a se stesso e alla natura dell’oggetto: la pittura, la resina, che ne conserva le tre dimensioni in un contesto bloccato, teorico.
Però nelle sue opere c’è voglia di spazio tangibile, a volte quello di una scena d’ampiezza limitata ma inscatolabile e dilatabile e che lo lega inesorabilmente al mondo della figurazione, al pari delle figure e della natura seccata, sublimata, vestita di colori caldi che non ha avuto mai. Allora cos’è alla fine lo spazio nella sua pittura? E’ un contenitore sottovuoto come le forme di vetroresina in cui sono immobilizzati i rametti, i fiori, le fascine che seleziona? E’ piuttosto quel respiro che dilata le dimensioni della geometria? Ci si può chiedere se il vento tanto presente nei titoli e nelle campiture rastrellate sia metafora del tempo che trasforma o traduzione dello spazio reale in spazio pittorico; se sia dentro il racconto o piuttosto strumento come il pennello o il carboncino. Certo Scolamiero non vuole narrarci niente, per quello ci sono altre strade, però le sue immagini propongono lo spazio a tutto tondo che si inspira attorno alle cose, ma delle cose restituisce, espirando, il concetto. Dunque la tecnica segue da presso il pensiero per la via della concettualizzazione: il “vento” è fuori dal racconto e dentro la sua visione, termine con cui il pittore congiunge una suggestione a posteriori col mezzo espressivo usato per sostituire all’immagine nota il suo equivalente personale, in una virtuosa sinapsi poetica. Tempo e spazio, trasformazione e passaggio: colore trascinato via che vela le figure con precisa tessitura e ne suggerisce il movimento o ne scolpisce i volumi rivelando incavi delle pietre, o, come intonaco a blocchi, copre. Il tempo dell’interiorizzazione e della traduzione in idea è dato in spazio, è tempo pittorico, è il punto di congiunzione tra due dimensioni che dialogano istantaneamente nel momento che abbiamo definito intermedio, quello dell’appropriazione mentale. E’ chiaro che nella modernità di una pittura che ha seguito il corso inevitabile di una contrazione dello spazio scenico, resta la libertà e il talento di usare i valori del puro piano e le profondità in aggetto o in scavo secondo necessità.
Nelle opere degli ultimi anni Scolamiero parte da stimoli familiari: ramoscelli, soffioni, pietre, e soprattutto l’erica e l’acanto. Niente illusionismi, però per arrivare al concetto occorre la carne dell’oggetto e da lì avanzare per associazioni d’idee.
Affiancati a nudi femminili che trascorrono da un luogo all’altro e sostano nella persistenza di un pensiero che li tiene sospesi, quei lacerti di realtà naturale costituiscono l’ancora al mondo materiale, l’antidoto al pensiero vagabondo, al tempo che scorre davvero, alle trasformazioni che non hanno una vera ragione. Succede che una luce nuovamente azzurra immerga capo e spalle nel cielo incorniciato dalla finestra; una figura, sotto la velatura fitta d’ombra, ha la quiete delle donne spiate dopo il bagno da Degas, una naturalezza a cui Scolamiero ha inteso regalare carattere spirituale attraverso un itinerario tra gli elementi. I piedi tra terra e acqua, la postura concentrata e rituale di chi porta una fiamma votiva, il volto fatto d’aria. (foto 12)
Di uno dei suoi modelli prediletti il pittore vuole proprio farsene una ragione, perciò lo ritroviamo tanto di frequente nei quadri: davanti ad un lungo fiore d’acanto secco si interroga divertito e un po’irritato sulla perfezione della simmetria, “devo capire come è possibile”.
Accompagnandomi fuori dallo studio mi spiega che da un cespuglio cresciuto ad un metro dall’ingresso sono da poco spuntati gli steli fioriti. Immagino la mattina che lo hanno sorpreso, alti e baldanzosi, impossibili da ignorare per uno che non si arrende alla bellezza assoluta fino alla rivelazione del segreto. Scolamiero è impegnato a dimostrare, dalla posizione apparentemente laica di chi vuole toccare quel genere di perfezione per poterci credere, che il naturale non è casuale, ma è già convinto dell’assolutezza dell’evento.
Il procedere per cicli, la scelta reiterata di alcuni soggetti, la scansione ritmica della superficie pittorica, il colore impastato e trascinato via con l’idea di disimpegnarsi dalla referenzialità figurativa, mostrano un legame profondo con l’evidenza visuale di una quotidianità tessuta di piccoli eventi e oggetti banali per molti (dal sasso all’acqua, al rametto di cui l’artista scova il profilo scultoreo. Lo prende, lo appoggia al muro e dice “vedi?”) e con la convalidata direzione della sua creatività. Tuttavia qualcosa cambia inesorabilmente, sottilmente, alterando cammin facendo il rapporto tra le fasi del processo di conoscenza e rielaborazione in progressivo favore di quest’ultima. Sicuro ormai di certi temi, Scolamiero lavora con grande cura sulla costruzione della composizione (le forme note che sembrano impronte di se stesse, invece sono disegno e ‘scalpello’, tanto raffinato da creare confusione nell’osservatore fugace), in alcuni casi quasi monocroma, ottenendo superfici di nitore totale, perfette e setose come lacche, gioielli d’equilibrio cromatico sottile che esaltano il valore del piano rinunciando quasi del tutto allo spazio prospettico, a momenti trovandosi in linea perfetta con il sipario di Greenberg. Non fosse per quel respiro delle pietre e delle melagrane. (foto 13-16)
Fedora Franzè, aprile 2006