Stefano Catucci, mostra Senza specie, Galleria Porta Latina, catalogo Achillea Felix editore, 2014
DUE FORME DI ESISTENZA IN PITTURA
1. Le forme e l’anima: Vincenzo Scolamiero
Oggetti
Lo studio di Vincenzo Scolamiero è un ampio rettangolo contornato di resti, oggetti raccolti con la malizia del robivecchi capace di scorgere in ciò che appare morto la possibilità di una vita postuma. Prevalgono i vegetali, gli arbusti rinsecchiti, i rami di acanto, i tralci di vite, gli intrecci di rovi che invitano a connessioni mistiche, quasi fossero stati presi da un trovarobato per sacre rappresentazioni. Ma non mancano piccoli manufatti, serrature incrostate di ruggine, chiavi, pezzi di ferro staccati da vecchi cancelli, un portacandele da chiesa, frammenti di intonaco caduti da qualche muro, pietre intere o spaccate che ricordano crani di uomini o di animali. Disposti in gruppi lungo le pareti, poggiati a terra oppure su tavoli e assi di legno, sono distribuiti secondo ordini basati essenzialmente sui rapporti di somiglianza. Le cose possono essere accostate per provenienza (inorganica, vegetale, animale), per affinità di forma, possono innescare fra loro più complesse relazioni di analogia oppure trovarsi accanto semplicemente per simpatia, perché condividono un’aria di famiglia.
I gruppi e gli oridni possono variare con il tempo, ma l’aspetto d’insieme delle cose e il loro rapporto con la pittura di Scolamiero rimane lo stesso. Quegli oggetti non raccontano storie, nemmeno i più riconoscibili e connotati. Non trasmettono significati, non hanno l’enfasi dei simboli, non sono nature morte da rifigurare in pittura e non formano nemmeno un allestimento scenografico. Dai luoghi nei quali sono collocati trasmigrano nei dipinti di Scolamiero non attraverso il percorso di una rappresentazione, ma simulando un contatto. Sono dipinti in modo talmente minuzioso, e con un tale virtuosismo del segno a mano libera, da apparirci quasi come l’impronta della cosa stessa sulla tela. Il pennello che ha steso le velature sembra avere incontrato gli oggetti, nel suo passaggio, come solidi posati sulla superficie del dipinto, profili scabri, ostacoli che si sono frapposti al gesto del pittore e che la mano ha seguito senza forzare, adattandosi alle irregolarità. L’impronta, ha scritto Georges Didi-Hubermann, è un’immagine dialettica che ci parla sia del contatto, sia della perdita di contatto, costringendoci a ripensare i modelli di temporalità con i quali giudichiamo il nostro rapporto con la provenienza e con l’origine. Nei quadri di Scolamiero l’impronta delle cose è diffusa ovunque, ma il fatto che sia soltanto simulata conferisce all’esperienza del contatto in primo luogo il senso della lontananza e della perdita. Il realismo dell’immagine-impronta si rivela così una strategia elusiva: una questione che lega la pittura non alla presenza, ma al tempo. Le figure non rinviano ai loro referenti, agli oggetti che pure sono così riconoscibili, ma alla visibilità stessa delle cose, al loro emergere e scomparire nella distanza, velatura dopo velatura, al loro mostrarsi tanto più sfuggenti e inafferrabili quanto più vengono definiti e paiono a portata di mano. In gioco, nel ritmo di questo movimento, non c’è la contrapposizione scolastica tra la figura e l’astrazione, o tra l’informale e la forma, ma una condizione di senso della pittura e, più in generale, di ogni nostra produzione di immagini.
Vegetali
Che i motivi maggiormente ricorrenti nell’opera di Vincenzo Scolamiero provengano dal mondo delle forme vegetali è un indizio del fatto che proprio le condizioni della visibilità, e non la rilevanza di singoli oggetti, siano al centro della sua ricerca. Walter Benjamin rimase colpito, nel 1928, dagli ingrandimenti fotografici di fiori, piante e aggregati botanici pubblicati da Karl Bloßfeldt nel libro Urformen der Kunst. L’universo di analogie aperto da quelle immagini ci avrebbe costretto a ridefinire l’intero inventario delle nostre forme percettive, notava Benjamin, facilitando l’accostamento fra arte e tecnologia, per esempio fra la visione al microscopio e l’astrattismo di pittori come Klee o Kandinskij, ma anche conferendo nuova dignità a un genere marginale, l’ornamentazione, il cui lavoro ricerca l’anima delle forme, cioè qualcosa di molto diverso rispetto agli obiettivi a della pittura astratta.
Queste osservazioni si avvicinano molto all’esperienza che ci viene trasmessa dalla pittura di Scolamiero, nella quale gigli, acanto e oggetti di risulta si rivelano potenziali portatori di anima proprio perché sono potenziali portatori di forma. La loro materialità ossificata, fossile, diventa allora il limite instabile che fa scivolare la storia nell’assenza di storia, ovvero nel tragico, e la figura nella sua sparizione, ovvero nella lontananza in cui si dissolve. Sono queste le preoccupazioni che dividono in modo netto la strada di Scolamiero da quella della pittura informale e che lo spingono a collocarsi in un’altra linea della modernità, più vicina a noi ma anche più minoritaria: quella per cui la ricerca sulle potenzialità del segno non si esaurisce in una questione di linguaggio ma prende il senso di un esercizio spirituale, nel senso che Pierre Hadot ci ha insegnato a riconoscere nella filosofia antica, certo, ma anche in alcuni gesti forti del pensiero contemporaneo.
Per molti aspetti il gesto del dipingere ha, nel lavoro di Scolamiero, proprio il valore dell’esercizio spirituale e un’importanza, perciò, che va oltre i singoli quadri e i singoli oggetti raffigurati. La perfezione e l’economia del movimento danno ritmo alla pennellata o sorreggono la dedizione amanuense, ipnotica delle carte. Il disegno sembra spesso derivare dal gesto come una sua proiezione diretta, eppure l’attenzione concentrata sul dev’essere indagata non in base a una sua autonomia, etica o estetica, ma in relazione ai mezzi con i quali Scolamiero indaga un’altra matrice della pittura: il senso dello spazio. Il colore, anche quando è dominato dagli sfondi più scuri, tende ad ampliare la superficie della raffigurazione dando respiro ai vuoti, alle distanze tra le linee e tra le figure, alla rarefazione delle atmosfere nelle quali gli oggetti sembrano fluttuare come se si muovessero in una pittura a tre dimensioni. A volte sono le sole velature a creare l’effetto di una distanza e di una profondità dentro il quadro. In altri casi sono interruzioni della pennellata che risultano, a lavoro finito, come pieghe di un tessuto leggerissimo, oppure sono piccoli strappi in trompe l’œil a suggerire che, se solo si staccassero le figure dalla tela o la si perforasse per entrarvi, si potrebbero scoprire altre modalità del visibile.
Calligrafie
Anche l’aspetto calligrafico del lavoro di Scolamiero rientra, contro ogni aspettativa, nella problematizzazione di uno spazio a tre dimensioni. L’accostamento con la pittura orientale, alla quale i lavori di Scolamiero più inclini al calligrafismo fanno pensare immediatamente, giustifica del resto quest’apparente paradossalità di una pittura che ricorre alla sua figuratività più astratta per restituire il senso del dinamismo spaziale. Sergej M. Ejzenstein ci ha lasciato su questo indicazioni preziose: le variazioni della calligrafia, il suo ingrossamento, il suo peso, l’ispessimento del tratto pittorico, equivalgono alla «messa in scena di una volontà di scrivere tridimensionalmente», di andare «oltre la superficie del foglio di carta» e oltre la resistenza che esso oppone, costringendo la mano a scorrervi sopra e a non penetrarvi perpendicolarmente. La più comune scrittura a penna, osserva Ejzenstein, è già deformata dall’impulso che vorrebbe spingerci a passare attraverso la carta. In pittura, quell’impulso diventa il segnale di una corrente emotiva che alcune tradizioni, come quella cinese, hanno attentamente codificato e che in Occidente, invece, sembra essere del tutto rimossa, come se allo stile calligrafico non corrispondesse emotività alcuna. In Cina, l’attenzione data a questo elemento è tale da aver giustificato una precisa tipologia di segni. Il trattatista Chiang Yee, all’inizio del Novecento, distingueva due procedimenti della pennellata, uno «delicato» e l’altro «vigoroso», ma poi articolava le configurazioni delle pennellate ricorrendo alla fantasia della nomenclatura tradizionale: la pennellata detta “corda di ferro”, la “foglia di salice”, la “foglia di orchidea”, la “foglia da ardere secca”, la “testa di chiodo”, la “coda di topo” e così via.
È possibile che l’artista-calligrafo abbia tanti nomi per i suoi tratti e per la forma delle pennellate quanti si dice ne abbiano gli eschimesi per la neve o ne avessero i salentini per la terra fino a qualche decennio fa, come ha raccontato il cantore Uccio Aloisi. È certo invece che riconoscere nel ductus della pennellata e nel tratto calligrafico le cifre emotive più scoperte della pittura di Scolamiero, a prima vista così protetta e disciplinata, sia un modo di cogliere il punto di saldatura fra le diverse istanze di un lavoro che rifluisce sempre verso le stesse cose e che fa coincidere, lungo il suo percorso, l’interrogazione sulle modalità del visibile con l’intuizione di una vita delle cose che costeggia la nostra, sia pure con ritmi temporali diversi, e che ci guida verso un’altra immagine del mondo.
Stefano Catucci – testo mostra : Senza Specie – galleria Porta Latina – 2012 – Roma